Memorie di Ernesto

Presentazione del libro “Memorie di Ernesto”

Brentonico, 18 febbraio 2017

Anni ’20 del secolo scorso. Cazzano di Brentonico (TN). Una voce fuori campo inizia il racconto di una storia, il tono è leggero, la scrittura è piana. La storia è quella della famiglia Gottardi-Roso. La voce narrante è quella di Angelina, figlia di Luigi Giacomo Gottardi e Marianna Roso.

È una voce, quella di Angelina, che ritroveremo come un basso continuo in tutte le pagine delle memorie di Ernesto:

“Bambina, mi incantavo davanti al cassettone in camera dei genitori.
C’erano due grandi foto dei fratelli di mamma: zio Giacomo emigrato in America, sposato con quattro figli e zio Ernesto, più giovane, emigrato in Francia.
Mia sorella Antonia era la maggiore e teneva la corrispondenza con tutti e due. Più avanti chiesi anch’io i loro indirizzi; scrissi in America e in Francia. Ernesto mi rispose subito”. (p. 3)

Incipit

L’incipit del libro rivela immediatamente i fili, feeling e mood, che condurranno la narrazione passo dopo passo: una storia di sentimenti familiari e una storia di emigrazione, come quella in fondo di tanti italiani. Meglio sarebbe dire una storia di emigrazioni, tanto numerose furono quelle che coinvolsero nel ‘900 migliaia di famiglie, e fra queste anche quella dei Roso.

Ma come conoscere mamma Marianna, quali sentimenti legano la famiglia Gottardi ai fratelli di mamma così vicini seppur tanto lontani?
Flashback. Per conoscere i protagonisti, riavvolgiamo il corso degli eventi, torniamo al 1897, il giorno in cui Ernesto Domenico nasce a Giol a Valli dei Signori, un comune del Pasubio, in provincia di Vicenza. Un’altra epoca, un’altra tecnica scandisce le ore del giorno, un altro modo di vivere. La voce e la scrittura di Angelina non si separano mai: non c’è fatica, non c’è compromesso da superare nel raccontare questa storia, se a raccontarla sono i sentimenti.

La scena ci mostra un paesaggio impervio, alle pendici del Pasubio. Iniziamo a conoscere Ernesto e la sua famiglia: i luoghi, le persone, la quotidianità. Di Ernesto conosceremo l’infanzia, la giovinezza, la maturità negli anni difficili della grande guerra.

È sagra a Sant’Antonio. Da Schio arrivano i piccoli negozianti ad offrire dolciumi e altre cose: se li aiutiamo un po’ a spingere i carrettini ci danno cinque centesimi o un tiramolla.
I ragazzi si danno da fare a ramazzare legna da portare al fornaio per raggranellare qualche soldo.
I ciclisti che venivano da Schio ci chiedevano di spingere le bici fino all’Hotel Dolomiti: lì vicino c’era la frontiera, non si poteva passare. Per scendere, dato che non c’erano i freni, attaccavano delle grosse rame dietro. Allora, montava un fumo. Per salire all’Hotel Dolomiti davano un franco, e come si era contenti! Io ero piccolo, ma mio fratello Giacomo e mia sorella Catterina ci andavano.
Passa anche il Re Vittorio Emanuele III e tutti con le loro sgarmorette, trac trac, trac trac, corrono a vedere e salutare. (p. 8)

La Grande Guerra lo vedrà dapprima sul Pasubio a costruire mulattiere e teleferiche e poi sull’Ortles, a 3600 metri di altitudine, a difendere un confine impossibile.

Il giorno dopo, nuovo ordine: far la corvè per provvedere ai bisogni dei soldati che si trovano a tremila seicento metri. Si saliva carichi di roba, aggrappati a delle corde.
Dopo due giorni, non la paura, non la stanchezza o le vertigini: sentivo che i miei polsi non resistevano più.
Le mani erano insensibili e non percepivano se stringevo o meno la corda. Sentivo che potevo precipitare nel vuoto da un momento all’altro. Il capitano mi chiede cosa voglio fare ed io gli dico:
– Amo meglio restare lassù.
Il mattino dopo, con il mio zaino rifaccio per l’ultima volta la via della corvè e mi piazzo in prima linea, nelle gallerie di ghiaccio nel piccolo posto della Bäckmann-Grat dopo aver oltrepassato la Thurwieserspitze. (p. 20-21)

Da lì, nel momento della controffensiva, Ernesto sarà alle spalle degli Arditi che oltrepassano Ponte nelle Alpi e raggiungono Auronzo, poi San Candido e infine Vipiteno.

La guerra era finita.
Io, che sono sempre stato patriota, rimasi profondamente colpito al vedere così tanti prigionieri laceri e malandati, smagriti e umiliati: mi fecero tanta pietà.
Avrei voluto prendermene personalmente cura come fratelli. Le loro condizioni erano peggiori, molto peggiori delle nostre. Invece di inveire contro di loro, avrei voluto chieder perdono.
Avanti a noi marciavano le compagnie degli Arditi: così non incontrammo resistenza. Si camminava sempre di notte, con il vitto ridotto perché la sussistenza non poteva seguirci. E sempre in silenzio, fra le montagne, così che il cammino raddoppiava la fatica. In lontananza echeggiava qualche colpo di cannone. Passammo Ponte nelle Alpi.
Fra gli avvenimenti di allora ce n’è uno che ricorda più di altri per la forte impressione che gli procurò: un ospedale da campo completamente distrutto da un incendio. Tra il fumo, decine e decine di brande allineate su cui giacevano corpi carbonizzati. Delle brande restava solo il metallo e i corpi, distesi, erano neri, irriconoscibili nelle pose più impensate. Passando in silenzio, non seppe dire se i corpi fossero quelli di soldati italiani o austriaci. Non lo seppe mai. (p. 24-25)

Nel frattempo i fratelli maggiori, Giacomo e Giuseppe, anch’essi soldati al fronte, sono già stati fatti prigionieri dagli austriaci: torneranno dalla guerra sani e salvi.

Qualche giorno dopo, avendo voglia di leggere il giornale e trovandomi qualche soldo in tasca, uscii per recarmi in città. All’incrocio un chiosco espone vari giornali; il primo che mi si presentò fu l’“Avanti!” ed io che sono sempre un po’ curioso lo presi. Veramente lo presi così come avrei potuto prendere “L’Arena” o “Il Gazzettino”.
Mi incamminai pian piano leggendo il mio giornale.All’improvviso ebbi la sensazione che qualcuno mi stesse davanti. Alzai gli occhi e vidi un generale. Scattai sull’Attenti. Lui, niente saluto, mi disse:
– Fammi vedere il tuo giornale!
Glielo consegnai. Mi disse di seguirlo. Entrammo al Tribunale della Ia Armata e lì mi domandò nome, cognome e posto di servizio. Poi mi fece segno di andare. Io, che sentivo montarmi la rabbia nel vedere il mio giornale lì sul suo tavolo, chiesi:
– E il mio giornale?
Lui si inalberò e disse:
– Domani avrai il tuo giornale.
La mattina dopo, il sergente di servizio:
– Roso! Roso!
Ridendo, mi porse il giornale assieme ad una lettera da consegnare al Comando della Compagnia ai “Paloni”.
Conclusione: dieci giorni di rigore, tavolaccio, pane e acqua. (p. 28-29)

Anche il dopoguerra si presenta difficile, per molti ricominciare significherà partire. Anche per i fratelli Roso. Il primo a partire sarà Giacomo, alla volta degli Stati Uniti. La scena si sposta in Pennsylvania. Una famiglia italiana, una storia di minatori, nel 1943 un crollo in miniera e il lutto che colpisce la famiglia.

Flashback: Ernesto e Giuseppe, non rimarranno molto a casa, un lavoro per loro c’è, in Eritrea: “Partiti 28 luglio. Cominciato il 2 Agosto” È il 1920: “Si stava costruendo una strada ferrata che andava da Cheren ad Agordat”.

Si stava costruendo una strada ferrata che andava da Cheren ad Agordat. Dunque il mio compito era quello di marcare le giornate degli operai e di caricare e far saltare le mine. La parte principale del lavoro era svolta di notte.
A volte, avevo cento colpi di mina da far partire e il pericolo era grande. Tutto veniva fatto a mano e con i denti. A pensarci adesso, vedo che il Buon Dio mi ha aiutato ed è un miracolo se sono ancora vivo.

Il lavoro durerà più o meno due anni. Al loro rientro, Ernesto chiederà e otterrà di partire per la Francia: con un amico, andrà a lavorare nelle miniere d’oro di Budelière: “Entrato in Francia il 29 luglio 1923”, scriverà su una piccola agenda.

Gli capita, passando in bici per recarsi al lavoro, di vedere una grande casa disabitata, circondata da un grandissimo giardino di ottanta are. La guarda e gli piace: ben soleggiata, comoda, nel centro del piccolo paese di Épothémont, sulle quattro vie. È in vendita. Partecipa all’asta e vince:

29-12-1927 comperato la casa pagato 16.000 spese del notaio 5360.
I vicini, un po’ gelosi:
– L’avete pagata troppo monsieur Roso!
L’anno dopo:
– Avete fatto bene, M. Roso!
Il terzo anno:
– M. Roso, avete fatto un affare! (p. 39)

Ma le storie di emigrazione nella famiglia Roso non si fermano. Siamo nel secondo dopoguerra: Bruno, figlio di Giuseppe, si è sposato da poco, e con la sposa Flora Penzo e la piccola Sedina proverà a trovare lavoro in un altro continente. Questa volta la meta sarà molto più lontana: l’Australia. Al figlio che nascerà in Australia, Joseph, verrà dato in segno d’affetto il nome del nonno. Infine, la storia dei figli dei figli, un itinerario che arriva fino ai nostri giorni: i pronipoti di una sorella di Ernesto, Maddalena, emigrano anch’essi in Australia. È la storia di Bruno e Giancarlo Facci, la storia dei loro figli.

Flashforward. Siamo ora a metà degli anni ’50. Angelina Gottardi, volontaria e poi infermiera alla casa di riposo di Trento, vuole conoscere e incontrare Ernesto, zio di cui lei ha solo sentito parlare, di cui possiede solo qualche lettera: è
il fratello della mamma Marianna, quello emigrato in Francia. Da più di trent’anni vive in un paesino a duecento chilometri da Parigi, Épothémont.

La narrazione ora si fa più serrata sulla vita di Ernesto, meglio sull’incontro fra Ernesto ed Angelina. Molte scene si susseguono. Passo dopo passo, ognuna ridisegna qualche evento particolare della vita di Ernesto. Il tempo della narrazione è scandito dalla presenza costante di Angelina, in estate e in inverno, in una peregrinazione fisica continua a partire dal 1963, di andata e ritorno tra Francia e Italia. Un andirivieni che la impegnerà per ben dodici anni.
Ma seguiamo la scrittura di Angelina:

Ho ventun giorni e mi preparo a partire per la Francia. In una grande valigia metto qualche indumento, carte e panorama del Trentino, una moca per caffè, un chilogrammo di farina gialla; mangeremo assieme polenta italiana. Compro un piccolo vocabolario italiano-francese e via. Lo zio mi aveva descritto tutto l’itinerario.

– Mi troverai alla stazione di Troyes. Terrò la mano destra sul petto, manca il dito medio perso sul lavoro; così mi riconoscerai.
– No, zio, aspettami a casa, è più semplice.

Così Milano-Chiasso, galleria San Gottardo, ecc.
La Svizzera è bella, tutto è verde: prati, frutteti, pinete, colli, e poi monti rocciosi altissimi, laghi e ruscelli. Il lago di Lugano è bellissimo, all’imbrunire ha luci da Presepio.

È mattino presto; in un bar di Troyes prendo un caffè e aspetto la corriera per Épothémont, il paese dello zio, a 200 km da Parigi.
Alle 10.30 si parte. Davanti a me la grande pianura francese, tanti piccoli paesi sparsi, qualche fattoria.
Ore 11.30. Nella piazzetta del paese chiedo di monsieur Roso; ma ecco, vicino a un cancello appare lo zio. Grazie Signore! (p. 43)

L’estate, in Francia:

È domenica e sono stata a Montier-en-Der alla Messa. Ho preso il car. È una bella gita: undici chilometri attraverso campi, prati, boschetti. Estensioni immense di verde con gruppi di mucche bianche e nere. Tante casette semplici ma tutte in fiore. Qua, le donne hanno una passione straordinaria per i fiori e sono assecondate dall’ambiente. Le case sono quasi tutte al piano terra e circondate da orti.
Al ritorno, l’autista mi ha fatto scendere davanti casa.
Posso proprio dire che con me i Francesi sono stati très gentil, molto gentili.
Mentre lavo i piatti, dalla finestra vedo le mucche di Jean e penso che sarebbe bello se fossero del mio Severino e se tutti fossero qua. (p. 47-48)

In questa storia di viaggi, Ernesto sarà spesso invitato a tornare in Italia. Così, nell’estate del 1965:

“Zio Bepi, c’è una sorpresa per voi, un parente. – Chi? Severino, tuo fratello? – No, viene dalla Francia, vostro fratello Ernesto”. (46)

Ernesto tornerà in più di un’occasione al paese nativo: non basta un viaggio, sono tanti i nipoti da incontrare, da conoscere.

“Sono contento di tuto e di tuti mi dispiace solo una cosa: è di non avere potuto rendere visita alle tue sorele e a tuo fratelo, ma se il Signore mi aiuta di potere venire un’altra volta comincerò per Brentonico a condizione però che tu sia con me”. In un’altra lettera scriverà: “Nela mia testa ho fato un piano: l’ano prosimo se il Signore ci aiuta andremo a vedere l’Altisimo”. (p. 260)

Il caro a tutti noi, Monte Altissimo.

È ora di tornare :

“Lo zio ha settantotto anni, io cinquantotto. Si è anche stanchi di valigie e viaggi. Con fatica e dolore ci si prepara a staccarsi da tante cose care: casa, ambiente, persone; specie lo zio, dopo più di cinquant’anni. Ma lui è sereno, anzi è lui che incoraggia: – Io sono vecchio, non posso più restare solo. Va bene così. 15 giugno 1975. La casa è venduta”. (p. 53)

Il 2 novembre 1975, Ernesto e Angelina lasceranno per sempre la Francia. In una lettera all’amico Jean datata 20 novembre 1975, Ernesto scrive :

“Caro Jean, scusami per non averti scritto prima. Il viaggio di rientro in Italia è andato abbastanza bene. La nostra salute è buona e speriamo lo stesso per tutti voi. Per ora qui non ci si può muovere, questo primo giorno è un po’ eccezionale”. (p. 307-308)

Non passerà molto tempo: nella casa di via dei Muredei, Angelina inizierà a raccogliere le Memorie di Ernesto.
Ultima dissolvenza.

Un capitolo fondamentale: i dialoghi epistolari

I dialoghi epistolari con i famigliari, specialmente con i parenti d’oltreoceano, rappresentano l’altra anima del memoriale: una dimensione forse più spirituale, più toccante, più emozionale. Se l’esperienza dei viaggi arriverà ad un certo punto ad una naturale conclusione, con lo zio ormai affaticato e bisognoso di cure, ed entrambi decideranno di ritornare definitivamente in Italia, a Trento, nel piccolo appartamento di Angelina in via dei Muredei, l’esperienza dei dialoghi epistolari continuerà feconda e fruttuosa nella corrispondenza ricchissima, quasi giornaliera, che Angelina ed Ernesto intratterranno con i propri cari. Una documentazione in gran parte giunta fino a noi.

Una traccia, per una storia familiare

Ecco la traccia originaria che si dipana nelle memorie di Ernesto raccontate da Angelina: un filo che ci conduce prima fuori nel mondo, là dove il mondo è, e poi di nuovo a casa, là dove ci prendiamo cura dei sentimenti.
Per Angelina non ci sono dubbi: per lei, nata a Genova quando la famiglia è sfollata a causa dello scoppio della prima guerra mondiale, vivere è un’attitudine estremamente complessa. Il suo è in qualche modo uno stato di grazia che la accompagna nella sterminata congerie di esperienze, vissute non solo e non tanto da lei, la narratrice, ma da lei assieme a tutti suoi cari, anche a quelli che nel corso degli anni l’hanno lasciata.
Come non pensarli sempre vivi nella sua quotidianità?

Le vite degli amici, dei vicini, delle persone che incontra per strada mentre visita Brienne-le-Château, o Montier-en-Der; e che a volte “ferma”, congela, nelle foto scattate con una Kodak comprata in un’edicola di una stazione. Una storia che ci è ben nota quando è bene interpretata dai protagonisti della Nouvelle Vague, quella “tranche de vie” ricca di piccole infinite sequenze di vita caratterizzate sì da eventi particolari, aneddotici, ma mai destinati a svanire.
Ma, non appena Angelina da fondo a questa miriade di ricordi che illuminano la sua vita e quella di chi le sta attorno, il piano si sposta ancora una volta altrove: ecco allora l’intrecciarsi delle parole della mamma amatissima, richiamate alla mente giorno dopo giorno, poi quelle del papà, dei nonni, degli zii, dei cugini e delle amiche con cui sperimenta la sua esistenza dedicata agli altri, ai malati, agli umili, agli indifesi.

Angelina ci porta con sé, vuole che incontriamo queste anime e conducendoci per mano ci accompagna in un tempo senza tempo, scritto con un inchiostro indelebile che, dai primi anni dell’800, gli anni in cui vissero i bisnonni Giuseppe e Maria Maddalena, arriva fino a noi, almeno sino al 30 dicembre 1988, data dell’ultima lettera ricevuta da Angelina e pubblicata nel volume di memorie.

Info

Stefano e Alberto Giovanazzi
t. 0039 0464 439936
Stefano m. 0039 329 4828149
Alberto m. 0039 346 3570000